D.- La crisi ha demolito, o
almeno molto ridimensionato, il mito del libero mercato come
soluzione di ogni problema. Si lamenta, però, che a questo punto
la politica non è più ispirata da alcuna linea-guida che possa
orientarci per il futuro. E’ davvero così?
E’ difficile dire che cosa si
intenda per idea-guida, una volta cadute le ideologie che le
alimentavano. Penso che con questo termine si debba avere riguardo
ad una certa idea di futuro, che sia fondata sull’osservazione
critica di ciò che esiste, e che sia sufficientemente fornita di
eticità per mobilitare le persone e convincerle che il futuro
può essere orientato in funzione di quella.
Che cosa ci dice l’osservazione?

Innanzi tutto ci pone davanti alla
constatazione che il mondo nella sua globalità ha imboccato la
strada della perequazione. Per secoli l’Occidente ha convogliato
su di sé la ricchezza, l’invenzione e il benessere, a scapito
delle altre parti del pianeta: lo ha fatto con la schiavitù, con
l’imposizione dei rapporti di scambio tra le merci, con le
politiche monetarie, con i prestiti soffocanti, con l’appropriazione
delle materie prime e delle fonti di energia, e in mille altri
modi. Oggi il resto del pianeta vuole recuperare su tutti i
fronti, drenando ricchezza in direzione contraria. Questo
riequilibrio ha la forza della storia, la spinta della giustizia,
l’energia della loro maggior capacità di sacrificarsi, l’ineluttabilità
dei vasi comunicanti.
L’epilogo di questo movimento tellurico è
che dobbiamo adattarci a cedere parte del nostro benessere. Ne
abbiamo molto, e non è una tragedia. Il punto è come distribuire
questo sacrificio. Noi lo stiamo facendo in modo sbagliato. Lo
facciamo smantellando a poco a poco le conquiste sociali con le
quali abbiamo cercato di umanizzare l’altra grande rivoluzione
di un secolo fa, quella dell’industrializzazione e del fecondo
compromesso tra capitalismo e socialdemocrazia. Lo facciamo
demolendo lo stato sociale e polarizzando la nostra ricchezza
sulla parte alta della piramide sociale. Infatti cresce il
prodotto interno, sia pure di poco, ma aumenta anche la povertà,
cioè il numero di coloro che stanno sotto la soglia del
benessere, o la sfiorano scendendo nella scala sociale. E sono
sempre più scarse le risorse per il sostegno alle situazioni di
difficoltà, gli operai salgono sulle gru, si allungano le file
davanti alle istituzioni di assistenza.
Allora la prima idea-guida scaturisce proprio
dal principio dei vasi comunicanti. E’ fatale che il
riequilibrio planetario sposti ricchezza e benessere a danno
nostro; ma è necessario che anche all’interno dell’occidente,
destinato a patire lo scorrimento, questo avvenga secondo lo
stesso principio, e quindi che il sacrificio non sia scaricato sui
più deboli di questa parte del mondo, ma sia sopportato
principalmente da coloro che hanno più beneficiato della rendita
storica oggi chiamata al rendiconto.
I corollari, come è intuitivo, discendono a
cascata. L’idea-guida non può essere quella ammiccante del
"non mettere le mani nelle tasche dei cittadini", ma
quella del collocarsi nel solco della grande perequazione globale,
recuperando, su scala planetaria e su tempi generazionali, l’intuizione
dell’anno giubilare, che ogni 50 anni riallineava le sorti degli
uomini, resi ineguali dalle vicende della vita (v. Levitico, 25,8
).
C’è poi una seconda idea-guida. L’epilogo
della grande crisi è stato ed è una gigantesca ristrutturazione
del mondo della produzione, a scapito del lavoro. La ripresa,
ammesso che ci sia, è in ogni caso una jobless recovery,
una ripartenza senza lavoro. Abbiamo risanato le banche, le
principali colpevoli del trauma; abbiamo spostato il loro debito
privato sul debito pubblico, castrando il futuro e chi ci dovrà
vivere; abbiamo curato la crisi da sovra-produzione mandando a
casa un bel po’ di produttori. Abbiamo cioè usato come medicina
la stessa ricetta che ha causato la malattia.
Questa prospettiva non regge, per una
considerazione elementare. Il progresso scientifico-tecnologico
permette di produrre la stessa quantità di beni con un sempre
minor numero di lavoratori. Si scrive aumento di produttività, si
legge disoccupazione strutturale. Pertanto, per mantenere un
passabile livello di occupazione, l’apparato ha bisogno di
produrre un volume sempre crescente di beni. Ma la crescita
illimitata non è concepibile, per molte ragioni: perché sono
limitate le risorse da trasformare in beni; perché la
polarizzazione della ricchezza svuota i borsellini, sicché ci
sono i prodotti ma non i compratori; perché non ha senso
sollecitare dei bisogni artificiali per collocare quei beni,
quando vi sono molti bisogni reali insoddisfatti; perché comunque
si perviene all’esubero e quindi alla categoria degli
"inutili", con quel segue in termini di degrado sociale.
Allora l’altra idea-guida è quella di
realizzare il matrimonio che attende da tempo.
Da una parte ci sono i milioni di non occupati
che aspettano chi li venga a chiamare per un lavoro. Dall’altra
parte ci sono gli innumerevoli lavori che attendono una manodopera
che non c’è: le scuole da bonificare, gli acquedotti da
risanare, le colline che smottano, i fiumi che esondano, i treni
dei pendolari, l’istruzione da diffondere, i posti letto
insufficienti, le opere d’arte da tutelare, gli anziani da
rispettare, la ricerca che langue, l’accompagnamento delle
situazioni umane in difficoltà. Una vigna sterminata senza
operai, che non riesce ad accogliere la folla immensa degli operai
senza lavoro.
Bisogna farli incontrare. Bisogna dirottare l’aumento di
produttività, offerto dalla scienza e dalla tecnica, non sull’incremento
dei beni materiali, ma sulla produzione dei beni immateriali di
cui siamo poveri. Il costo non sarà il mercato a soddisfarlo, ma
la politica: non con il debito accollato al domani, ma ancora una
volta con la perequazione, richiesta a chi ha avuto più vantaggi
dall’oggi.